LE MIE TECNICHE DI INSEGNAMENTO: IL MODELLAMENTO O APPRENDIMENTO IMITATIVO

L’apprendimento imitativo, noto anche come modellamento, è una tecnica di insegnamento potente. Si basa sulla capacità di osservare e imitare modelli di riferimento che eccellono in determinate abilità o tecniche sportive. Questo processo è facilitato dai neuroni specchio, che collegano l’osservazione dell’azione all’attivazione dei circuiti cerebrali coinvolti nell’esecuzione dell’azione stessa.

I neuroni specchio sono responsabili del collegamento tra l’osservazione e l’azione nel nostro cervello. Quando osserviamo un movimento, i neuroni specchio si attivano come se stessimo eseguendo quell’azione noi stessi. Questa attivazione ci consente di comprendere e imitare l’azione osservata, facilitando l’apprendimento imitativo.

Il modellamento può essere utilizzato per migliorare le prestazioni degli atleti, i quali osservano attentamente e imitano i movimenti, le tecniche e le strategie dei modelli, cercando di riprodurli con precisione. Questo processo consente loro di apprendere in modo rapido ed efficace, migliorando le proprie abilità e prestazioni, passando da una fase di pura riproduzione ad una fase di apprendimento del pattern d’azione replicabile nei dettagli.

Per sfruttare al meglio questa tecnica di insegnamento, l’allenatore dovrebbe porre attenzione ai seguenti punti:

  • Individuare con precisione il livello motorio del soggetto
  • Proporre l’apprendimento di abilità motorie adeguate al suo livello
  • Semplificare la dimostrazione schematizzando il gesto e mettendo in evidenza gli elementi strutturali (ricordate il chaining?)
  • Accompagnare la dimostrazione con pochi suggerimenti basilari che guidino la comprensione
  • Fornire, dopo l’esecuzione, un feedback sintetico ed essenziale, ponendo l’accento, nelle indispensabili correzioni, solamente sugli aspetti strutturali del movimento e evitando di evidenziare i dettagli
  • Osservare se l’allievo dopo un certo numero di ripetizioni, prenderà sempre più maggior coscienza della propria esecuzione e se la qualità del movimento potrà essere ottimizzata anche da aspetti fini.

Risulta ovvio come, in questo caso, l’istruttore abbia una accurata preparazione e padronanza della tecnica nei minimi particolari!

Nello sport delle bocce è importantissimo conoscere la tecnica di gioco. Qualora non la conoscessi, effettua l’abbonamento per avere accesso ai contenuti esclusivi!

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L’OBIETTIVO CHE TI FA VINCERE

Cari appassionati di bocce, voglio parlare dell’importanza di porsi obiettivi “semplici” nel nostro sport preferito. Le bocce richiedono precisione, strategia e dedizione, e porsi obiettivi può fare la differenza tra una semplice partita e una vittoria straordinaria. In questa pagina del mio blog, voglio condividere con voi perché porsi obiettivi è essenziale per eccellere nello sport delle bocce e come possiamo farlo con successo. Continuate a leggere e scoprite il potenziale trasformativo degli obiettivi nel nostro cammino verso il successo!

Porsi un obiettivo in ambito boccistico è importante per migliorare le proprie prestazioni e ottenere successo nella disciplina. Un obiettivo permette di concentrarsi su aspetti tecnici e tattici, come migliorare la precisione nei tiri o sviluppare strategie vincenti.
Un obiettivo aiuta a monitorare i progressi nel tempo e adattare l’allenamento per affrontare eventuali punti deboli o migliorare abilità esistenti. Porsi un obiettivo fornisce una motivazione costante per allenarsi con impegno e dedizione, sapendo che ogni sforzo è finalizzato al raggiungimento di un risultato desiderato. Un obiettivo stimola la competizione interna, incoraggiando l’atleta a superare se stesso e a raggiungere livelli di prestazione sempre più elevati. Un obiettivo può aiutare a gestire lo stress e la pressione durante le competizioni, fornendo un punto di riferimento per mantenere la calma e concentrarsi sull’esecuzione dei tiri. La fissazione dell’obiettivo promuove una pianificazione strategica degli allenamenti, consentendo di lavorare su specifiche abilità o situazioni di gioco al fine di affinare le proprie capacità boccistiche. Un obiettivo può essere condiviso con il proprio team o allenatore, creando un senso di responsabilità reciproca e incoraggiandosi a vicenda. Un obiettivo a lungo termine permette all’atleta di mantenere una visione a lungo raggio, affrontando gli alti e bassi con resilienza e determinazione. Il raggiungimento di un obiettivo porta a una sensazione di soddisfazione personale e di crescita come giocatore, aumentando la fiducia in se stesso e la motivazione per continuare ad allenarsi e migliorare.

Di seguito ti svelo quale è l’obiettivo vincente!

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    LE MIE TECNICHE DI INSEGNAMENTO: IL CONCATENAMENTO

    Il concatenamento, o chaining, è una particolare strategia utilizzata per l’insegnamento di abilità complesse costituite da sequenze comportamentali ben delineabili, come nel caso di tecniche o gesti tecnici di una disciplina, le bocce ad esempio. In breve significa suddividere il compito in piccoli passaggi separati per facilitare l’apprendimento.
    In concreto si delineano le parti componenti di un’abilità complessa, i comportamenti semplici, le quali poi vanno collegate per produrre la complessità del gesto.
    Quando si insegna un comportamento usando il concatenamento, il primo passo è preparare e compilare un’analisi del compito detta anche task analysis.
    Le task analysis hanno lo scopo di identificare tutte le unità più piccole insegnabili di un comportamento che costituiscono una catena comportamentale. Possiamo prendere come esempio, riguardo la disciplina delle bocce, il gesto della bocciata: per insegnare questa particolare abilità occorre dapprima suddividere il gesto in fasi (impugnatura, posizionamento, rincorsa, rilascio, accompagnamento) e poi strutturare un programma di allenamento tale da portare progressivamente all’acquisizione di ogni singola componente sino a riprodurre l’intero movimento nel miglior modo possibile.
    Una volta realizzata la task analysis occorre valutare quali passaggi della catena l’allievo è già in grado di svolgere in autonomia. Un modo è quello di far eseguire all’allievo tutto il compito e segnare con + i passaggi corretti e con un – i passaggi che non è in grado di svolgere. Per valutare tutta la catena l’allievo verrà aiutato nei passaggi che non riesce a compiere. Ogni singola fase della sequenza viene insegnata e rinforzata una volta completata correttamente l’intera sequenza.
    Dopo che l’allievo ha completato il primo passo con un certo livello di precisione, viene insegnato il passaggio successivo della sequenza con rinforzo contingente al completamento di tutti i passaggi precedenti. E’ importante che il rinforzo venga consegnato solo al completamente dell’ultimo passaggio della task analysis su cui si sta lavorando.
    Per tutte le procedure di concatenamento, nel caso in cui l’allievo non sia in grado di svolgere uno o più comportamenti della catena, questi saranno insegnati con le strategie di prompt o fading, di cui abbiamo parlato la scorsa volta.

    LE MIE TECNICHE DI INSEGNAMENTO: L’AIUTO E RIDUZIONE DELL’AIUTO

    Insegnare è sinonimo di aiutare. Inizialmente è importante aiutare l’allievo ad acquisire e consolidare un determinato gesto atletico o tecnico, attraverso l’utilizzo di stimoli che possano facilitare l’emissione di una determinata risposta e di conseguenza rendere più probabile il verificarsi della performance desiderata. Questa tecnica dell’aiuto, detta prompting, viene utilizzata nel momento esatto in cui si sta attuando la prestazione. Inizialmente, fornire troppe indicazioni verbali potrebbe gravare sull’efficacia dell’intervento, come, facendo un esempio, quando un allenatore spiega la tecnica di tiro in maniera teorica con una moltitudine di dettagli: il risultato è che l’allievo, neofita, non comprende bene e trovi subito un ostacolo insormontabile da superare, il quale, se protratto nel tempo, porta immediatamente all’abbandono sportivo.
    E’ opportuno, invece, utilizzare diversi tipi di prompt in grado di aiutare il soggetto ad apprendere:

    • Piccoli suggerimenti verbali, composti da poche parole facilmente comprensibili, dettati con un tono di voce che cura e motiva, come ad esempio “prova a…” “cerca di…”. Quando l’allievo non segue bene le indicazioni date, è importante evitare di pronunciare la parola “non” o “no”. Sempre meglio dire “cerca”, “prova”, possibilmente con un tono di voce inizialmente alto.
    • Se notiamo che l’allievo fa fatica a comprendere dalle parole, possiamo utilizzare un linguaggio non verbale, ossia i gesti: questo tipo di aiuto funziona soprattutto con i ragazzi più chiusi caratterialmente e che hanno sviluppato una buona capacità di osservazione e imitazione; e ovviamente funziona con coloro che non hanno la minima conoscenza della disciplina. Anche in questo caso la gestualità va presentata in modo comprensibile e lento, ripetendo eventualmente più volte il movimento. Di solito questa è la tecnica maggiormente utilizzata ed è quella che molti definiscono “apprendimento per imitazione”.
    • Infine si può ricorrere alla mera guida fisica, la quale presuppone un contatto fisico, ad una distanza che definirei intima, per stimolare l’emissione di comportamenti ricercati o la riduzione di altri inadeguati: l’utilizzo di questo tipo di aiuto non è consigliabile se l’allievo prova fastidio al contatto ravvicinato o non si sente a suo agio.

      Dopo l’osservazione e la valutazione del caso, i prompt sono indispensabili nella prima fase dell’apprendimento, dopo di che vanno necessariamente ridotti gradualmente o eliminati allo scopo di favorire l’emergere dell’abilità, la quale successivamente si consoliderà in base al sentire interiore dell’allievo, ovvero dopo aver sviluppato una buona propriocezione.
      La strategia utilizzata per attenuare progressivamente gli aiuti forniti si chiama fading. La riduzione dell’aiuto verbale, ad esempio, può consistere nel diminuire il numero delle parole che compongono una affermazione o nell’abbassare il tono della voce con cui viene pronunciata; la riduzione dell’aiuto fisico, invece, può consistere nell’allontanamento progressivo dall’allievo in termini di distanza fisica e la correzione di eventuali errori può essere semplicemente mostrata attraverso un piccolo gesto con il corpo.
      Risulta importante pianificare anticipatamente cosa voglio dire e, soprattutto, come lo voglio dire cercando di catturare l’attenzione di chi ho di fronte. Nel prossimo video continueremo a parlare di apprendimento, seguimi!

    DENTRO IL TEAM: OTTIMIZZARE LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE

    Ottimizzare la Gestione delle Risorse Umane è certamente uno degli elementi strategici, da più parti segnalato come centrale, per il successo di un team. Significa riuscire a tirare fuori il meglio dalle complesse operazioni connesse all’organizzazione del gruppo squadra, senza dimenticare mai come in questo caso il bene del team, ovvero la sua competitività, la sua efficienza e la sua produttività. Benessere che va inteso non solo dal puro punto di vista del risultato sportivo, ma anche relativamente al senso di appartenenza, alla motivazione, alle prospettive di carriera e alla realizzazione delle aspirazioni personali dei singoli componenti.
    Per ottenere importanti risultati occorre rispettare almeno cinque punti.

    1. Avere strategie e procedure d’azioni chiare
    Avere delle regole all’interno del team, o meglio una vision, ha un’importanza fondamentale per mettere nero su bianco che cosa i giocatori debbano aspettarsi dall’allenatore e dalla società sportiva, e ovviamente cosa la società si aspetti dalle risorse umane. Dotarsi di strategie chiare ed efficienti, d’altro canto, evita possibili incongruenze e incomprensioni e aiuta l’organizzazione, definendo con precisione chi debba fare cosa e in che modo ciò vada fatto in condizioni normali o di difficoltà. Partire da questi elementi, trasferendo nella loro composizione la storia, la visione e gli obiettivi della società, è di sicuro un primo passo utile a far rendere al meglio gli atleti.

    2. Investire in formazione continua e costante
    Ogni processo di crescita sportiva necessita, alla sua base, di un adeguato e pianificato investimento nella formazione continua e costante dei componenti. Dal potenziamento delle abilità all’acquisizione di nuove competenze tecniche, dal lavoro sull’aspetto tattico alla comunicazione di una road map che definisca i percorsi interni di crescita, sono tante le azioni da mettere in piano per raggiungere l’obiettivo di fare di una squadra un’organizzazione perfettamente strutturata nel suo presente e consapevolmente proiettata verso gli obiettivi futuri. Risulta alquanto importante dotarsi di specialisti dei vari settori: tecnico, nutrizionistico, psicologico, motivazionale, tattico.

    3. Adottare una comunicazione efficace
    Motivazione, sicurezza, soddisfazione e coinvolgimento degli atleti  non possono prescindere che da un sistema di comunicazione efficace, che sappia prendere in considerazione le risorse umane sia dal punto di vista generale, ovvero dell’intera platea dei giocatori, che da quello particolare, relativo alle singole esigenze. Curare anche la comunicazione aumenta le possibilità di confronto e, se sottovalutata l’importanza, può minare l’organizzazione interna e le possibilità di crescita del team.

    4. Motivare, Premiare e Incentivare
    In stretto collegamento con il punto precedente, il sistema premiante, il Welfare societario e le incentivazioni vanno pianificate e strutturate dall’allenatore insieme dirigenza societaria, in maniera tale da focalizzare l’impegno nel raggiungimento dei risultati previsti senza tuttavia rappresentare un aggravio insostenibile per la società. Il premio o incentivo crea motivazione e la motivazione produce il risultato. Il concetto sottostante è: tu lavori bene ed io ti premio; tu lavori male ed io non ti premio; tu vinci ed io ti premio il doppio.

    5. Sposare una visione olistica dell’organizzazione del team
    E’ puramente illusorio pensare che senza una visione sistemica, che abbracci tutte le diverse componenti della strategia gruppale, si possano raggiungere risultati di livello, in termini di produttività, competitività e benessere. Ottimizzare la gestione delle risorse umane fa parte infatti di una visione complessiva della squadra che, superato il concetto di divisione spesso gerarchizzata dei suoi ruoli e delle funzioni, coinvolge tutte le persone che la compongono in un’entità organizzata, capace di lavorare in sinergia per un obiettivo condiviso. Non rendersene conto, in particolare oggi in un’epoca di grandi quanto repentini cambiamenti, denoterebbe una imperdonabile miopia strategica.

    Tutti i componenti del team sono unità a sé, le quali vanno fatte funzionare insieme, facendo leva soprattutto sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla stessa visione sportiva, in pieno accordo con la filosofia della Gestalt, secondo la quale “il tutto è più della somma delle singole parti”. Avere una rosa ampia significa possedere più sostegno morale e una scelta più ampia, ma significa anche riuscire a creare un’armonia tale per cui tutti si sentano importanti ma nessuno indispensabile. Tanto alla fine vince sempre la squadra.

    Luca

    LA RIVALITÀ INTERNA AL TEAM È NATURALE E SANA

    Arriviamo ad un certo punto della nostra carriera di allenatore a percepire una sorta di rivalità interna tra un ragazzo e l’altro ed i genitori di entrambi magari, se fino a questo momento avevano un buon rapporto e soprattutto un bel dialogo, iniziano ad allontanarsi ed a percepire l’altro come “nemico”. Non dobbiamo preoccuparci perché la rivalità è un fattore normale.
    Da un punto di vista storico, la rivalità, o meglio competizione, è insita nella natura umana. L’uomo vive sempre in modalità competitiva, fin dai tempi antichi, per ragioni di sopravvivenza, per necessità o semplice vanità.
    Da un punto di vista bio-psico-fisico, è il periodo che va dai dodici anni in poi, quando inizia l’adolescenza insomma, che risulta particolarmente significativo nella crescita del ragazzo e nell’emergere di cambiamenti a livello emotivo e cognitivo: maggiore attenzione e preoccupazione per l’immagine del proprio corpo, maggior concentrazione su se stessi, in un equilibrio precario tra alte aspettative e mancanza di fiducia, sbalzi di umore, maggiore capacità di pensiero complesso, espressione dei sentimenti attraverso le parole e un senso più forte di ciò che è giusto e sbagliato. Questi cambiamenti sono visibili certamente anche a livello sportivo.
    Quindi è del tutto normale che il ragazzo provi una sorta di invidia o di rivalsa nei confronti del suo amico, poiché è in questo momento che ha la tendenza di voler venir fuori a tutti i costi ed essere migliore dell’altro, in tutto e per tutto. La cosa normale è che il compagno di squadra può essere un rivale e questo è molto naturale e il più delle volte cresce in maniera nascosta e spontanea.
    Quando un ragazzo comincia a migliorare e vincere, è naturale che all’interno del team questo comincia ad essere ammirato e gratificato, soprattutto se i buoni risultati sono costanti. Ma capita anche di avere un “bersaglio sulla schiena.” Quei compagni di allenamento che migliorano più lentamente cominciano a misurarsi con l’agonista che trasformano in una sorta di “parametro”  e ogni lotta con lui si trasforma in una sorta di esame. A volte può crescere anche un senso di antipatia, solamente perché l’altro è in grado di fare cose che io non sono in grado di fare, ma è del tutto infondata e senza alcuna ragione di esistere. In realtà il più bravo non è antipatico, è solamente fonte di ispirazione.
    Un altro fattore che genera rivalità è l’orgoglio. Quella vecchia e ristretta mentalità del “vincere” o “perdere” può causare animosità e un danno inutile all’interno della squadra. L’allievo ha bisogno di capire che l’allenamento è l’ambiente in cui andrà ad apprendere ed allenare le tecniche ed è il luogo dello sviluppo. Essere vinto da un compagno di allenamento dovrebbe essere considerato come un segnale che indica come sia necessario correggersi e migliorare.
    La cosa migliore da fare è vedere la squadra come un ingranaggio enorme, in cui ognuno gioca un ruolo fondamentale nel definire e migliorare la formazione dei compagni di squadra. Ci si deve spogliare dell’orgoglio e occorre essere sempre onesti poiché per raggiungere qualcosa di grande ci vuole un gruppo di ragazzi non solo talentuosi, ma che funzionino bene insieme. L’allenatore deve essere bravo a veicolare e dirigere le rivalità verso il solo canale possibile: il bene della squadra. Purtroppo, molte persone, tra cui i genitori stessi, non capiscono questa importante differenza, credendo che il solo talento (o la sola esperienza) sia sufficiente o che, semplicemente, il proprio figlio debba essere maggiormente considerato rispetto ad un altro. Non ha funzionato e mai funzionerà così. I genitori dovrebbero sempre essere semplici “osservatori” dell’atto sportivo. Infine, a volte dimentichiamo che lo sport è anche un formidabile veicolo di storie di amicizia, a volte straordinariamente grandi. Pensiamo a Coppi e Bartali, Rivera e Mazzola, Nadal e Federer: sono solamente alcuni esempi di rivalità-amica che hanno segnato la storia dello sport: uomini che si sono fronteggiati sul campo, ognuno con i propri valori e principi, che hanno nutrito un profondo rispetto l’uno per l’altro.

    COSA FARE QUANDO SUBENTRA LA NOIA SPORTIVA?

    Uno dei maggiori ostacoli al successo è la noia. Molti nostri ragazzi avrebbero voglia di terminare presto una sessione di allenamento non per quanto sia fisicamente difficile, ma per quanto sia noioso. Siamo onesti, ripetere gli stessi esercizi più e più volte può essere noioso. Tuttavia, imparare a tollerare la noia e trovare modi per rendere l’allenamento più stimolante è la chiave per poter crescere e migliorare. Questo aspetto vale nello sport come nella vita di tutti i giorni!
    Nei primi anni di attività, in quella che io definisco fase di avvicinamento e avviamento allo sport, è fondamentale “non annoiare”, dato che si presume che il fine ultimo sia quello di divertirsi, niente più; non ci sono infatti particolari pressioni o obiettivi, ma l’allenatore dovrebbe lavorare solamente nel proporre situazioni sempre nuove e stimolanti ed allestire un ambiente piacevole, nonché puntare fortemente sul movimento e sul gioco di squadra.
    Pian piano che si avanza con l’età, a fronte di una programmazione definita dall’inizio, inizia l’insegnamento vero e proprio dei precetti della disciplina, tra i quali la tecnica di gioco e i fondamentali, tramite lo sviluppo e il miglioramento degli schemi motori di base e delle capacità motorie coordinative e condizionali: si inizia a lavorare sulla coordinazione, sull’equilibrio, sulla concentrazione e sulla precisione. In questo particolare momento possono iniziare le prime avvisaglie di noia, ma è cura dell’allenatore porre rimedio. Come? Seguendo la pianificazione delle attività e relativi obiettivi da raggiungere, l’allenatore deve essere in grado di proporre situazioni di gioco sempre nuove e fresche, variando anche l’ambiente di allenamento se necessario; deve essere in grado di presentare in maniera creativa le attività , senza intaccare la loro funzionalità e riducendo la monotonia; può trasformare gli esercizi in giochi o competizioni tra allievi; può rendere gli esercizi sempre più impegnativi e difficili, una sorta di sfida da lanciare all’allievo che sarà più motivato nello svolgimento; proporre esercizi a coppia o in gruppo per incentivare il lavoro di squadra; cosa più importante è il suo atteggiamento: sempre positivo ed energico!
    È così facile fronteggiare la noia? Non proprio. È nella fase di specializzazione e iper-specializzazione che essa è difficilmente interpretabile.
    Se l’allenatore ha seguito efficacemente il percorso di crescita dei propri ragazzi, programmando le varie fasi dall’avviamento all’insegnamento sino alla specializzazione, ora l’attenzione particolare viene rivolta alla componente strategica, al lavoro di gruppo, alla regolazione delle emozioni e alle prime informazioni circa l’allenamento mentale. È la fase che interessa i 14/15 anni circa, prima del perfezionamento sportivo in termini di stabilizzazione delle massime prestazioni fisiche e mentali. È chiaro che si tratta di una fase molto delicata, nella quale gli allenamenti non possono essere mirati puramente al divertimento.
    Ora serve alzare l’asticella, spingersi in avanti per capire realmente se vogliamo praticare lo sport da atleti. Mi dispiace informarvi di questo.
    E questo non significa non divertirsi più, anzi se si lavora bene e rispettando la pianificazione del lavoro c’è spazio anche per il divertimento. Ci si diverte se si lavora bene e lavorando bene ci si diverte anche perché si vince.
    Si possono comunque creare situazioni piacevoli se allenatore e allievo sono disposti a collaborare instaurando un legame di fiducia solido, legame che dovrebbe in questo caso andare “oltre il campo di gioco”.
    Definirei quindi la noia come una presa di coscienza o uno stato d’animo relativo ad un preciso momento del processo di crescita sportiva, da non sottovalutare, ma che un allievo deve condividere e approfondire con il suo mentore. Forse è semplicemente l’ora di prendere una direzione e fare una scelta: dentro o fuori. Praticare lo sport inziando a comportarsi da atleta oppure cambiare rotta.
    L’allenatore deve conoscere il percorso del proprio allievo ed avere già sviluppato un programma a lungo termine e deve saper dare le giuste risposte nel momento in cui si presenterà questa difficoltà, definendo degli obiettivi raggiungibili, concreti e misurabili e la reale speranza che ha il suo allievo di emergere da qui in avanti, in totale sincerità.
    Deve iniziare a venir fuori, a questa età, il senso di responsabilità e consapevolezza del proprio futuro. Tutto questo avviene grazie al supporto del mentore, ragione per il quale l’allievo non deve mai sentirsi solo, ma vuole e deve essere accompagnato da una persona positiva, energica e di fiducia!
    Caro ragazzo, in alcuni casi dobbiamo fare ricorso al nostro senso del dovere. Potrebbe non essere divertente fare ciò che si è chiamati a fare, ma la disciplina mentale è quel processo di pensiero che ti porta a farlo comunque cercando di immaginare quali possano essere gli effetti positivi che si percepiranno dopo essersi sforzati di farlo.
    Comprendiamo che non tutte le parti dell’allenamento devono essere divertenti. Ci saranno parti dell’allenamento che saranno noiose. Bisogna accettarlo e prendere sia il buono che il cattivo.
    L’allenatore deve essere bravo a coltivare nell’allievo la motivazione intrinseca e fargli imparare ad amare lo sport fine a se stesso. Per fare questo, occorre pensare positivo e cercare di godersi ogni parte dell’allenamento il più possibile. Ragazzo, smettila di lamentarti di quanto sia noioso. Concentrati sugli aspetti positivi e disciplina la tua mente per rimanere concentrata sul compito da svolgere in modo da poter entrare in uno stato di “flusso”. Ricorda, più sei mentalmente impegnato, più sarà divertente. Amare è un verbo. Devi lavorare per amare il tuo sport.
    E sappi che forse non potrà essere questa la tua strada, ma non abbatterti. C’è tempo per tutto.

    LA VITTORIA E’ DIRETTAMENTE PROPORZIONALE ALL’ESPERIENZA

    C’è sempre da migliorare! Bisogna imparare a perdere! Bisogna che ti alleni di più!
    Sembrano delle frasi fatte, banali e dette la maggior parte delle volte così, tanto per dire, da qualcuno che non ha piena coscienza di ciò che sta dicendo e che nemmeno il ragazzo, il più delle volte, comprende.
    Sei bravo hai tempo per vincere! Questa è la più significativa. Cosa significa in questa affermazione la parola “tempo”? Chi decide nello sport quanto tempo occorre prima di vedere il realizzarsi di un risultato importante, una vittoria?
    Cosa significa però “imparare a perdere?”

    Ci sono tre elementi imprescindibili da tenere in considerazione, i quali sono tra loro legati da un termine: ESPERIENZA, il “toccare la realtà”.

    1. Allenamento tecnico e strategico. Senza la giusta dose di allenamento non si va da nessuna parte. Sessioni programmate, grande forza di volontà, individuazione degli obiettivi e monitoraggio continuo.Errore, sconfitta, consapevolezza dell’errore, correzione, ripetizione della correzione, assimilazione, messa in pratica, risultato positivo, strategia vincente. Questo significa imparare dell’errore e dalla sconfitta: un continuo miglioramento e una integrazione del proprio bagaglio tecnico.
    Non bisogna quindi “evitare” a prescindere l’errore, ma toccarlo, osservarlo con occhio clinico per capire il perché si è presentato e solo poi come possiamo evitarlo. Sarebbe facile per un allenatore dire “devi imprimere più forza al lancio” oppure “devi mettere la boccia a fondo campo”. Ma perché devo? Non puoi spiegarmi il perché?

    2. Partecipazione alle competizioni ufficiali per confrontarsi con i propri pari, verificare la preparazione, scoprire le proprie emozioni in una cornice diversa da quella quotidiana, imparare a gestire l’ansia, la timidezza e la paura, adattarsi ad ambienti e situazioni del tutto nuove e diverse. Gareggiare significa maturare esperienza. Solo attraverso il confronto diretto con gli avversari, con il ripetersi di situazioni di gioco, tattiche, con il ripetersi anche di stati emotivi e delle relative risposte che mettiamo in atto, possiamo sviluppare la capacità di problem solving e di resilienza, ossia la capacità di adattarsi a situazioni sempre nuove e che richiedono condizioni diverse di adattamento rispetto alla normalità e la capacità di trovare soluzioni a diverse problematiche. Questa è esperienza. Capire dove gli altri sono più bravi di noi, i loro difetti e i loro punti di forza, capire quando e come riusciamo a mettere in difficoltà l’avversario e farla diventare una strategia vincente. Gareggiare serve inoltre ad imparare a conoscere e adattarsi a diverse tipologie di superfici o terreni, diversi da quello su cui siamo abituati ad allenarci tutti i giorni. Anche questa è esperienza.

    3. Mentoring. L’atleta non può da solo “fare esperienza”. L’allenatore non conosce in principio le risposte ai bisogni del ragazzo, ma operano insieme, tracciando la strada per il successo. Il mentore è qualcuno che accompagna il ragazzo con il suo pensiero critico e partecipe, il cui scopo è proprio quello di farlo crescere dal punto di vista professionale e umano: sa vederlo come lui non sa fare, conosce i suoi limiti e invita, proprio per questo, ad affrontarli e superarli.
    Il mentore è colui che prende sotto la sua ala e insegna cose sul campo, non stando su una cattedra ma accanto al ragazzo. Il mentore segue i suoi passi e spesso dà consigli, osserva, discute e poi sa lasciare soli con le proprie responsabilità e le proprie scelte. Non è semplicemente un amico, di amici ne abbiamo tutti e magari anche molti: l’apporto prezioso del mentore è spesso dato dall’esperienza, dalla saggezza che viene dalla lunga conoscenza del settore specifico del mondo dello sport e soprattutto dalla conoscenza della natura umana. Un mentore è colui che sa conversare e condividere, che fa della carriera non un monologo, ma un dialogo che apre spazio per qualcosa che stando da soli non si aprirebbe: l’umiltà e l’ironia necessarie a vedersi con più chiarezza, cruciali per mantenere una serenità di fondo davanti ai successi e agli ostacoli.

    Non bisogna affrettare un processo, che di per sé è naturale. Il tempo è il peggiore nemico dell’uomo, il quale vuole tutto e subito. Occorre la pazienza, la costanza e la consapevolezza di dover necessariamente perdere e soffrire. Questa è la strada per la vittoria. 

    Luca

    AMBIZIONE GENITORIALE E IMPORTANZA DELLA SCONFITTA

    Cari genitori, vi siete mai chiesti perché vostro figlio decide di praticare un determinato sport? Avete mai provato a chiedergli perché gli piace? Sono certo che la maggior parte di voi risponderà di no, anzi alcuni si sentiranno in colpa per aver imposto al loro figlio di praticare un determinato sport. Cosa vi aspettate da vostro figlio? Ma soprattutto cosa significa per voi lo sport? Ne avete mai praticato uno?
    È importante possedere quella che definiamo “cultura sportiva”. Solo attraverso essa riusciamo a comprendere l’importanza dello sport quale strumento di crescita personale, da un punto di vista non solo sportivo ma soprattutto umano, educativo, valoriale, comunitario, sociale.
    È importante far capire che all’interno della cornice sportiva esistono professionisti e allenatori qualificati. Vostro figlio è in buone mani. Lasciate svolgere all’allenatore il suo lavoro, perché di lavoro si tratta, il più delle volte sottopagato o nemmeno pagato, nonostante si occupi di un compito molto importante: la crescita del ragazzo. Non mischiatevi in questioni che non vi appartengono, perché non siete competenti. Sostenete piuttosto vostro figlio nelle decisioni importanti e condividete insieme le varie esperienze prima e dopo ogni allenamento o competizione. Guardate vostro figlio, è soddisfatto? È felice? È ansioso? È triste?
    Il processo per diventare un campione è molto lungo, anzi forse irraggiungibile. Educate vostro figlio a saper perdere prima di vincere, perché solamente mostrando lui le due facce dello sport, vittoria e sconfitta, lo state veramente aiutando. Prima di imparare a vincere occorre imparare a saper perdere per acquisire esperienza e per correggere gli errori. Non esistono le macchine umane. Esistono però esseri umani che lavorano tutti i giorni per esprimere il potenziale interno. La sconfitta fa parte della vita ed è necessaria e inevitabile nel processo di crescita sportiva di tutti gli atleti. Chiedete a Michael Jordan. Chiedete a Marcell Jacobs. Chiedete a Roberto Baggio. Chiedete a chiunque. Ma cercate di accompagnare vostro figlio nelle scelte, con umiltà e saggezza, senza preservarlo dalle esperienze negative, spronandolo nelle sue decisioni. Il vincente è colui che non ha paura delle strade tortuose, le affronta, piange, soffre, trova soluzioni per oltrepassarle. Il vincente è colui che ha perso e nella sconfitta ha trovato la forza di rialzarsi.
    Conoscere i propri limiti ed esperire eventi negativi in età infantile è importante  per evitare l’insorgere di problematiche ben più complesse in età adolescenziale e adulta. Infatti in questo modo viene data al ragazzo la chiara visione di quelli che sono l’oggettivo e il normale funzionamento della vita, ossia che non è tutto rose e fiori e che occorre lavorare duramente tutti i giorni per diventare quello che vogliamo.
    Vivere esperienze negative, inoltre, significa apprezzare maggiormente da grandi anche le piccole cose. Non è importante vincere subito, l’importante è capire il perché si è sbagliato e come poter trovare una soluzione all’errore. Intelligenza e capacità critica. Coscienza e capacità di problem solving. Sono questi gli ingredienti dei quali hanno bisogni i nostri ragazzi. Voi, genitori, ricordatevi tre concetti: dialogo, attenzione come cura ed estraneità durante l’atto sportivo, cioè siete genitori, non allenatori. Fate i genitori. Già questo sarebbe metà dell’opera.